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Resurrexit

Comitato Pro Pulcinella

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Il Pulcinella degli artisti

Pulcinella aveva subito un primo processo con annessa condanna ad opera degli intellettuali napoletani dell’Italia unita, ma questo non aveva impedito che la maschera continuasse a vivere tra la gente comune una delle sue più importanti stagioni, grazie a commediografi come Altavilla, Marulli e attori-autori d’ eccezione, come Antonio Petito. Soltanto dopo la morte sulla scena di quest’ ultimo il divario tra il ceto intellettuale patriottico e il teatro di Pulcinella (riflesso di un più ampio processo, che segnò la fine del continuum culturale transclassista, che aveva reso possibile un teatro popolare nel senso più ampio del termine) si era accentuato, con la conseguenza dell’ esclusione del Cetrulo dai teatri che allora contavano. Furono poi le avanguardie primonovecentesche a sottrarlo  agli orizzonti limitati di questi teatri e a trasformarlo in uno dei miti della cultura europea. Quando Rouault ripropose il Polichinelle francese  come “il doppio emblematico del Cristo oltraggiato”, la cultura del primo dopoguerra (futuristi, cubisti, dadaisti) riscoprì la Commedia dell’ Arte, affascinata dal clima surreale che l’ improvvisazione degli attori, la sostituzione della macchina all’ attore nel teatro di figura, lo sfrenamento della fantasia, i colpi di scena, l’ universo diabolico, la dimensione onirica sembravano conferire al teatro dei comici.

Queste esperienze cosmopolitiche di riscatto della maschera non coinvolsero i napoletani, quando, nel secondo dopoguerra, si prese atto della crisi della città e, come era avvenuto negli anni dell’ Unificazione, se ne cercarono le responsabilità. Come abbiamo visto, furono proprio essi a decretare la morte di Pulcinella, che in un’ ottica politicamente distorta appariva espressione dei mali della società, se non di essi addirittura corresponsabile. Ma anche questa volta furono gli artisti (in qualche modo eredi delle avanguardie primonovecentesche) a liberare la maschera dai vincoli sociologici che la legavano direttamente e riduttivamente alla presunta “miseria” napoletana, restituendole ampiezza e profondità di significati e valori.

Chiancone: Pulcinella malinconico

Alberto Chiancone, nato a Porto Santo Stefano nel 1904, aveva completato gli studi presso il Regio Istituto d’Arte. Fu uno dei pittori più apprezzati di Pulcinella, al quale dedicò, tra l’ altro: Ballerina e Pulcinella; L’adunata dei Pulcinella (1959-60); Pulcinella e Colombina; Pulcinella all’osteria (1961); Commedia dell’Arte  (1966); Due Pulcinella; Pulcinella malinconico (1973); La morte di Petito (1977); Il sogno di Pulcinella (1980-84); Dietro le quinte (1983); Pulcinella e Arlecchino che giocano a carte (1987-88).  Chiancone maturò all’ interno delle esperienze dell’ Avanguardia la convinzione della necessità di un distacco dalle tradizioni pittoriche napoletane, anche se di esse conservò la predilezione per i temi del paesaggio partenopeo, la gente di Napoli, Pulcinella e così via. Fu nel gruppo degli “ostinati”  e dei “chiaristi”, influenzato da Semeghini, De Pisis, Bonnard, Tosi (decisivo però fu forse per lui l’ insegnamento di Nabis e Vuillard). Nei suoi Pulcinelli si mescolano ambiguamente autobiografismo e napoletanità: il dipinto Pulcinella (autoritratto?) ne è il sintomo più vistoso. Hanno la caratteristica quasi costante di non portare sul viso la mezza maschera, che tengono nelle mani (il che nel codice teatrale significa che non recitano, sono fuori scena), mentre la biacca bianca ricopre tutto il viso, accentuando la loro malinconia. Moderna incarnazione pittorica del buffone infelice di origine ottocentesca, passato probabilmente attraverso la straordinaria rilettura novecentesca di Rouault, i Pulcinelli di Chiancone, sempre seduti, stesi  per terra, assonnati, smarriti, cogli sguardi che non si incontrano o si evitano, sembrano infatti ricordare i suoi Pagliacci infelici, in cui si può intravedere la figura  del Cristo ucciso e dileggiato. Non a caso Chiancone, come Rouault, è anche il pittore di Cristo crocifisso.

Cortiello: Il volo dei Pulcinelli

Mario Cortiello (1907-1981), napoletano, aderì inizialmente al chiarismo lombardo, poi ripartì dalla tradizione pittorica napoletana. Anche lui fu prevalentemente autore di dipinti di Pulcinella, che gli valsero la fama di “Chagall napoletano”. Noto anche all’estero, ha aperto un atelier parigino a Montmartre. Queste le sue principali tavole in nero: Il successo di Pulcinella; Il giudizio di Pulcinella, 1966; Pulcinella a caccia di farfalle, 1966; Passeggiata malinconica,1966. Tra le tavole a colori: Pulcinella in villeggiatura, 1953; Pulcinella approda all’isola, 1959; La rivoluzione di Pulcinella, 1964; Pulcinella scopre la verità, 1964; Battaglia di Pulcinella, particolare, 1966; La pesca di Pulcinella, 1966; Paradiso di Pulcinella, 1966; Cavalcata di Pulcinella, 1966; Pulcinella nel palazzo magico, 1966.  Occorrerebbe aggiungere ancora le illustrazioni al volume dedicato alla Zeza carnevalesca, introdotto dal saggio di Domenico Rea. La pittura di Cortiello risente in maniera decisiva dell’ impressionismo francese, ma il pittore stesso ricorda di avere superato le prime difficoltà con l’ esempio degli affreschi  pompeiani, e poi della   pittura napoletana di paesaggio, da Micco Spadaro alla Scuola di Posillipo.

Klimt e Chagall, Pissarro e Utrillo vi si ritrovano fusi. All’ inizio di tutto c’ è lo stimolo delle Avanguardie ad osare quello che era considerato inosabile, restituire l’ immaginario mitico e realistico del Pulcinella del teatro e del Carnevale  (l’ hortus conclusus, la serenata, la scala, le donne, le scampagnate, i baccanali, l’  asino, il sogno, il successo, la zuffa, la villeggiatura, le danze, la caccia alle farfalle, il  volo dei Pulcinelli ecc.), in un linguaggio radicalmente rinnovato, onirico ed erotico. La folla dei Pulcinelli che riempie tutti gli spazi dei quadri è quasi disorientante. Qui il modello che governa l’ immaginario  non è tanto il teatro, dove opera in ciascuna rappresentazione un solo Pulcinella,  quanto le folle giocose e festanti del Carnevale, dove i Pulcinelli si muovono in frotta, in due o in tre, come avviene anche nei dipinti di Chiancone e Piscopo. Ci sono anche i Pulcinelli volanti, forse perché Cortiello ha compreso che Pulcinella (da pullus, pollastrello) è un pollo di cortile, con una frustrata nostalgia di cielo. Sembrano dimostrarlo  il Cetrulo altalenante di Tiepolo, o quello ottocentesco, che con una barca a vela  vola verso la luna.

Cagli: Pulcinella in fiore

 A Pulcinella Corrado Cagli dedicò 23 disegni che formarono un volume pubblicato a Napoli dall’ editore Marotta nel 1974 (I Pulcinella di C. Cagli); uno di questi disegni, trasformato in una spilla in oro (Pulcinella in fiore) dall’ opificio orafo fiorentino, in ossequio alle intuizioni di Cagli e di Franco Torrini, nel 2008 meritò un’ importante mostra a Firenze, che segnò il trionfo della concezione del gioiello non più come espressione di ricchezza, ma come patrimonio artistico di valore. I disegni nacquero come riscrittura del testo di Luigi Compagnone, Ballata e morte di un capitano del popolo, di cui interpreta fatti e personaggi (Pulcinella com’è, Pulcinella e l’ oggetto misterioso, Pulcinella e il demone di primavera, Pulcinella capopolo, Pulcinella ai Tropici, Pulcinella incantatore, Pulcinella e il turco, ecc.), in un linguaggio grafico in cui confluiscono le numerose esperienze dell’ artista, dalla Scuola Romana al Picasso. Cagli sperimentò tutte le forme artistiche che contrastassero le ideologie totalitarie del suo tempo: si ispirò a Picasso, a Matisse,  a Braque e a Gorky, infine a Kelle, Mathieu e Pollock.

Butera: l’uomo incinto 

Nelle sculture di Enzo Butera, scultore calabrese nato nel 1940, che si è formato girando per l’ Europa, ricorrono con frequenza figure dell’ uomo incinto, e in mezzo ad esse si trovano alcune maschere della Commedia dell’ Arte, in particolare di Pulcinella, tutte notoriamente legati al mito dell’ uomo partoriente e allattante. Butera ha voluto verificare nella sua esperienza di vita il significato di queste rappresentazioni, che si ritrovano nei lati più misteriosi o oscuri delle culture. Il tema rispecchia la crisi dell’uomo che, nel momento in cui la donna ha le doglie, percepisce di essere espropriato del potere di dare la vita al figlio a vantaggio della compagna: “Durante la gravidanza di mia moglie ho vissuto la crescita della ‘pancia’ come un fatto nostro, fino al punto di sentirmi partecipe della gestazione, quindi ‘incinto’; questo stato è durato nove mesi meno alcune ore. Perché, dal momento in cui mia moglie ha

cominciato ad avere le doglie, nonostante la mia presenza e la continua partecipazione, ho sentito che il mio stato di grazia era finito. Non ero più incinto, era mia moglie a partorire, io ero stato solo un mezzo. In pancia mi sentivo un enorme buco. La natura mi ha fatto ahimè ritornare alla realtà, privandomi di una sensazione che non potrò mai provare. Nonostante il buco in pancia rimarrò incinto in testa”. E’ una svolta cognitiva, che non sembra casuale. Si comincia a guardare in profondità dentro la maschera quello che prima non era stato visto, o era stato elusivamente guardato come una trovata buffonesca.

Serafini: Pulcinellopedia

Nel 1984 esce la prima edizione della Piccola Pulcinellopedia, una singolare opera, destinata ad essere presto tradotta all’ estero, che il romano Luigi Serafini, noto architetto e designer,  ha composto per la Casa editrice Longanesi, concepita come suite di disegni a matita e brevi testi, dedicata interamente alla maschera di Pulcinella.  Il libro è di 128 pagine interamente illustrate in bianco-nero e a colori.  Serafini è famoso per le sue opere stranianti e misteriose, come il Codex Seraphinianus (1981). Di lui si legge nella  “W.P. Encyclopaedia of Noodles and Doodles”, voce Essenze: “La complessità della millenaria storia d’Italia sembra aver sempre trovato il modo di condensarsi in quello straordinario laboratorio della natura umana che è la città di Napoli e dove per un lento e naturale processo di distillazione si è ottenuta la bianconera e preziosa Essenza di Pulcinella, così ricercata in tanti Paesi. Inelencabili sono tutti i suoi ingredienti e soprattutto segreta ne è la combinazione: dall’estetica digitale all’onomatopea spinta, dal baricentro ipnotico nella maschera nera alla instancabile gesticolazione browniana, dalla mutevole plasticità del drappeggio alle luci, ombre e connessi che esso cattura, dalla esaltazione della mistica unione sugo/spaghetti alla perfetta predisposizione a film in bianco e nero, dalla sconcertante modernità del camicione, dall’esemplare evoluzione della preistorica arte dell’arrangiarsi. L’ Essenza di Pulcinella rende euforici vecchi e bambini, uomini e donne (…) gli occhi si aprono al Dionisiaco, alla consapevolezza della irripetibilità dell’esserci, alla certezza che il Mondo non è che un teatro”.

Piscopo: Pulcinella futurista

L’ interpretazione figurale moderna di Pulcinella era cominciata nei primi decenni del Novecento con le prime, grandi Avanguardie. L’ esempio di Picasso sembra essere rimasto un referente importante per le opere di Vittorio Piscopo, noto pittore napoletano,  considerato il principale erede del futurismo napoletano, che a Pulcinella dedicò una parte importante della sua produzione di venti anni: ne ricordiamo soprattutto degli oli su tela Pulcinella (1970); Carnevale napoletano (1975); Martedì grasso (1975); Trilogia teatrale (1979); Il dubbio (1981); Gli straccioni (1981); Lavenia e Maccus (1982); I lazzari (1983); dei dipinti con  tecnica mista su cartone Musica e tristezza (1978); La droga (1978); La danza (1978); Musica solitaria (1978); Musica remota (1978);  La maschera e il volto (1980). I Pulcinelli sono di solito raffigurati in gruppi di tre o di due o di molti, secondo un modello rappresentativo mutuato, come abbiamo anticipato, non dal teatro, ma dal Carnevale; al Carnevale fa pensare il fatto che essi sono colti quasi sempre in atto di danzare, tenendo strumenti musicali della tradizione popolare.   Questo sembra essere quel poco di etnico e di sociologico che connota queste maschere, che sembrano piuttosto interessare il pittore  sotto l’ aspetto formale e psicologico, che indaga con strumenti figurativi futuristi, cubisti, metafisici e informali. “Pulcinella ha una specie di fisica mancanza di peso, un’ agilità di movenze e passi e spostamenti che lo rassomigliano a un elfo” (Prisco). 

Questa levità in parte è dovuta al tocco del pittore, in parte è incarnata nel personaggio:  Piscopo riesce a cogliere e restituire soprattutto “quel senso del ritmo e di grazia interiore, che è tipico di Pulcinella”, grazie anche alla “levità armoniosa degli accenni cubistici”,  e libera la maschera delle connotazioni buffonesche e perfino grottesche presenti nelle rappresentazioni di ispirazione realistica, ma anche nella realtà del personaggio, creando un Pulcinella raffinato, in cui potesse riconoscersi una Napoli  che aspirava a riproporsi come modello di civiltà e di cultura. Il  Pulcinella pesante e tardo che dispiega improvvisamente una insospettata levità e abilità doveva suscitare le reazioni provate da Picasso davanti ai saltimbanchi; Rilke aveva descritto la trasmutazione della goffaggine in destrezza come il passaggio dall’ insufficienza pura alla vuota sovrabbondanza, individuando evidentemente nell’ assenza di funzione e di senso il punto in cui si saldano gli opposti dell’ inadeguatezza e dell’ eccesso. La dura disciplina del mimo-acrobata si trasforma nell’ arte della leggerezza, che Goethe aveva visto emblematicamente riassunte in Pulcinella.

Ritorno della grande saggistica

Il Pulcinella di Bragaglia tra erudizione e futurismo

Nel 1982 ricompare nelle librerie, riproposto dall’ editore Sansoni, il Pulcinella di Anton Giulio Bragaglia: non una raccolta di saggi, ma un ponderoso volume, il primo dedicato espressamente e interamente alla maschera napoletana. L’ opera, pubblicata la prima volta dall’ editore Casini nel 1953, era stata accolta con molti apprezzamenti, ma senza suscitare entusiasmo nei lettori, in un momento in cui la fortuna della maschera sembrava tramontare. La seconda edizione degli anni ottanta è quasi identica alla prima, ma il momento era ora sicuramente favorevole a Pulcinella. Riproposta dopo quasi trent’ anni senza aggiornamenti, l’ opera era però in ritardo rispetto al punto cui era arrivato il dibattito internazionale sulla comicità nella cultura del tempo, ma influenzò la percezione di Pulcinella, perché fu usata come un’ enciclopedia, un serbatoio di idee, notizie, dati, frequentemente nuovi. Il volume ha fatto comprendere per la prima volta l’importanza determinante del contributo meridionale allo sviluppo del teatro delle maschere, di cui fino allora non era stata riconosciuta abbastanza la specificità meridionale. Ha fatto emergere inoltre un quadro della diffusione di Pulcinella fuori di Napoli, con una attenzione particolare alle due maggiori tradizioni italiane, quella romana e veneziana: questa sua fortuna fuori della Campania è stata vista un po’ arbitrariamente come un’appendice del Pulcinella partenopeo, e ha avuto l’ effetto di rafforzare l’ orgoglio e di far crescere nella regione l’ immagine del Cetrulo.

La storia di Pulcinella si articola, in questo volume, secondo segmenti sincronici e diacronici, che riflettono le competenze e gli interessi di Bragaglia  uomo di teatro: i luoghi istituzionali e non, la gestualità, le libertà linguistiche, il rapporto con la Chiesa cattolica, gli attori, gli autori, la fisiognomica. Quasi nessuno di questi aspetti è trattato in maniera esaustiva, ma abbondano le informazioni, spesso preziose per la loro rarità, anche se è  ignorato quasi completamente il Pulcinella del folklore, e frequentemente testimonianze eterogenee vengono giustapposte senza tenere conto delle coordinate culturali entro cui si muovono. La parte più utile e preziosa è perciò costituita da una settantina di pagine collocate in fondo al volume,  che contengono l’inventario delle pulcinellate edite e manoscritte dal Seicento alla metà del Novecento: un materiale sterminato, in larga misura sconosciuto, perché disperso nelle biblioteche e negli archivi pubblici e privati e di difficile reperimento. Questo inventario dava un’idea della ricchezza della produzione teatrale concernente Pulcinella, e avrebbe potuto stimolare attività di ricerca, che però sarebbero comparse solo dopo qualche lustro. Lo stesso Bragaglia se ne servì poco, quasi scoraggiato e sopraffatto da questo mare di pagine, in cui era perfino difficile pescare e scegliere.

La parte più brillante del libro è invece costituita da alcune intuizioni e osservazioni particolari. Ad esempio, Bragaglia sostiene che Pulcinella non è un buffone tollerato dalla Chiesa, ma è il suo pagliaccio ufficiale, proponendo una correlazione che apriva la strada all’ analisi più approfondita di Alessandro Fontana. Uomo di teatro ed ex regista anarchico, Bragaglia ha insegnato a smontare e spiegare i segreti della macchina teatrale della Commedia dell’ Arte, di cui Pulcinella è tanta parte, secondando le suggestioni che gli venivano dalla sua esperienza futurista.  Sotto questo aspetto egli si pone in sintonia col Pulcinella futurista, cubista e astrattista della pittura napoletana del secondo Novecento.

Il Pulcinella di Croce: artistico ed extrartistico

“La filosofia ci guadagnerebbe se qualche filosofo studiasse Pulcinella, piuttosto che i libri scolastici dei colleghi”. A dirlo è proprio Benedetto Croce, filosofo, ma anche storico, letterato e filologo, che di Pulcinella si occupò a più riprese, in saggi che rappresentano un modello euristico fondamentale nella cultura tra Otto e Novecento. Non a caso nel periodo di cui ci stiamo occupando i suoi saggi sulla maschera e dintorni sono stati riproposti a Napoli, in un volume (Pulcinella) pubblicato  da Grimaldi per conto de “Il Mattino” e presentato nel dicembre 1990 al Teatro Mercadante da illustri rappresentanti della cultura napoletana, storici, filosofi e artisti. L’ opera era notoriamente ricca di argomentazioni storiche e filologiche di rara lucidità, che erano state in parte assorbite dalla critica e dagli interpreti migliori di Pulcinella nell’ arco di circa un secolo (il primo volume crociano dedicato a Pulcinella risale al 1881), ma ancora riproponibili come antidoto alla decadenza degli studi sulla maschera, come modello per la vastità e finezza di erudizione e per il rigore metodologico. Un vero e proprio restauro dell’immagine di Pulcinella, una rivendicazione della sua importanza e del suo ruolo nel segno della migliore tradizione di studi.

Ecco, per esempio, come Croce discusse uno dei luoghi comuni più controversi sulla maschera, la sua assunzione a simbolo del proletariato partenopeo. Egli la fa risalire ai viaggiatori stranieri, colpiti dalla presenza invadente del Cetrulo nella vita napoletana nel teatro e fuori di esso, e impressionati da alcuni “contatti”, ossia da tratti culturali e sociali comuni al teatro di Pulcinella e al proletariato napoletano. Fedele alla sua estetica, Croce non accetta in linea teorica questa identificazione, perché a suo giudizio Pulcinella “rappresenta invece caratteri universalmente umani” e tra questi caratteri ve ne sono alcuni che non hanno “nella nota fondamentale” niente che appartenga alle singole classi sociali; ma poi riconosce che la napoletanità della maschera, ossia le sue valenze e connotazioni locali, possono essere descritte e comprese in sede extrartistica, il che implica che per Croce Pulcinella è anche il “tipo del proletariato” e “del sottoproletariato”, ma questo non avrebbe rapporti col suo significato, e non conterebbe ai fini della sua interpretazione. E come sociologo (mi si perdoni il termine), Croce  si mostra attento agli aspetti sociali della maschera (egli ha anche saputo individuare alcuni caratteri borghesi e aristocratici di Pulcinella), anche se come filosofo li confina nella sfera extraestetica, rendendoli estranei ai significati fondamentali. Anche se questa dissociazione porta alla conseguenza che quello che di importante rimane di Pulcinella è la sua astratta “comicità”. Come stiamo vedendo,  questa tendenza a liberare Pulcinella dai vincoli sociologici tradizionali è una caratteristica dell’incipiente revival pulcinellesco degli anni Ottanta, condivisa soprattutto dagli artisti.

Toschi: le maschere sono i morti

Negli stessi anni la demologia e la folkloristica fornivano una narrazione nuova dell’ universo emblematicamente rappresentato da Pulcinella, in cui si riconosceva la natura delle maschere carnevalesche, che incarnano “le potenze della generazione, le divinità sotterranee, i dèmoni, le anime degli avi che nella giornata fatidica del cominciamento dell’ anno, dell’ eterno ritorno del ciclo produttivo, evocati da appositi riti, compaiono sulla terra, e vi esercitano la loro forza”. Questa la spiegazione di Meuli e Jeanmaire, che si ritrova nel demologo italiano Paolo Toschi (1976, ristampa dell’edizione del 1955). Pulcinella ha infatti “la voce stridula, propria delle maschere-anime dei morti”, di cui “ha conservato la maschera nera, il vestito bianco, il cappuccio, il gesticolare, lo scherzo e la satira sguaiata”.

Quanto alla contaminazione del comico e del demoniaco in Pulcinella e nelle altre maschere, tutte aggressive nel gesto e nella parola, grottescamente chiassose e smoderatamente  ridanciane, Meuli aveva riscontrato questa caratteristica anche nelle maschere africane, oltre che nei diavoli delle sacre rappresentazioni, e Toschi vi aggiunge una nota psicologica, lasciandone la spiegazione ai filosofi: “talvolta lo spavento suscita il riso, un riso irriflesso, assurdo, ma autentico: l’esperimento può farsi con i bambini”. Ma per spiegare la mescolanza di spavento e baldoria, comicità e paura, doveva entrare  in scena la magia:“il principio magico a cui tali fatti si ispirano è quello secondo il quale più intensa sarà l’allegria, più alto e sfrenato il tripudio, e più abbondante crescerà la messe, più lieta e felice scorrerà l’annata per la comunità”. Gli studi demoantropologici, forti dell’ esperienza sul terreno, aggiungevano che le anime dei morti  incarnati nelle maschere si placano  sfogando la loro cattiveria e libidine, o ricevendo doni  e atti di  sottomissione dalla comunità o venendo ricacciati a botte nel sottosuolo. Queste teorie influenzarono la ricerca demoantropologica italiana degli anni 70-80 e, attraverso di essa, produssero soprattutto tra i ceti colti (o a partire da essi) un nuovo modo di sentire Pulcinella e il Carnevale: conferirono una profondità insospettata e allettante alle scene buffonesche, parvero spalancare abissi dentro la risata comica, e contribuirono al formarsi di una diversa e più fine sensibilità, che sembrava redimere il grasso e spesso grossolano e osceno tripudio della maschera.

La costruzione cabalistica di Andrea Mascara

Già agli inizi degli anni sessanta, quando era ancora forte in molti la preoccupazione per la morte imminente o già avvenuta di Pulcinella, il napoletano Andrea Mascara, libero pensatore e dotto ricercatore in proprio con la passione del Cetrulo, aveva riscritto la rappresentazione della maschera nella forma eccentrica di  una costruzione cabalistica del secolo XVII, presumendo di scoprire  nelle profondità del personaggio “la conoscenza biblica trasmessa sotto la luce kabbalistica” che si era sviluppata in Spagna “all’ epoca della simbiosi arabo-giudaica” e si era poi diffusa nel vicereame napoletano.

L’opera (Il segreto di Pulcinella, 1961) scompone in una molteplicità di elementi, anche minimi, la fisiognomica della maschera, il corpo, i segni del viso, la voce, l’ abbigliamento, il linguaggio gestuale, il corredo degli  oggetti, i movimenti e le azioni e di ogni dettaglio fornisce una interpretazione partendo dall’ interno del patrimonio religioso ebraico.  La fonte principale sarebbero “i più importanti commentatori biblici visti nella prospettiva ebraica ed anche cristiana”. Alcuni esempi: il limone che Pulcinella porta al capo di una canna simboleggerebbe “il cuore d’ Israele e della speranza messianica”; la mascella d’ asino che il cavadenti del Carnevale estrae dalla bocca di Pulcinella sarebbe il simbolo che creò la notte del Sabbah; Pulcinella che cavalca un prete starebbe a significare “un uomo che si serve della Chiesa, e dunque del dogma, per farsi portare e per potere in tal modo avanzare; il cane di Pulcinella che “mordeva i cristiani” sarebbe “un messaggio che non desidera lasciarli tranquilli”; il gatto con la sua autonomia rappresenterebbe gli uomini che non vogliono prendere posizione; la spada sarebbe il simbolo della parola divina; il corno  lo strumento sacro che aveva il potere di “confondere Satana”, e così via.

Questa ermeneutica, secondo il Mascara, era funzionale al bisogno di una sorta di setta religiosa di sottrarsi ai pesanti controlli ecclesiastici che limitavano la libertà della parola e del pensiero: tutti i dettagli della figura e delle azioni di Pulcinella erano simboli che costituivano “una specie di una specie di alfabeto allegorico di una fede”, con cui “era possibile comporre vere e proprie dimostrazioni di questa credenza, eludendo il veto del Santo Uffizio”. L’opera sottoponeva la maschera a un’analisi di dettagli accuratamente trattati, che diventavano immagini di pensieri profondi, ai quali  finiva col sovrapporre  un improbabile sistema di pensiero religioso  e alchemico che, tra l’ altro, deprivava le immagini stesse della loro ambiguità e polivalenza, serrandole in significati univoci che le riducevano a una sorta di gergo teologico.  Per quanto non priva di osservazioni intelligenti e arricchita di un corredo di foto di rara bellezza, non esercitò alcuna influenza sulle rappresentazioni di Pulcinella e del mondo napoletano, a parte l’ effetto più immediato di cancellare la sua  immagine lazzarona, pagliaccesca e plebea   e di riconsegnare la maschera al suo mistero, e a un eccentrico tentativo di scioglierlo.

Pulcinella riscritto dalla psicoanalisi e dall’ antropologia

Il ritorno del rimosso

Nel 1971 comparve finalmente la versione italiana del saggio sul simbolismo che  nel 1916 Ernest Jones, brillante allievo di Freud, aveva presentato alla British Psychological Society. Il testo, cui poi si riconobbe una importanza decisiva, suscitò una reazione di “incredulità e ripugnanza” per il fatto che la teoria si basava sull’   analisi della figura di Pulcinella, che Jones, avvalendosi del metodo comparativo “a volo di uccello” (come d’ altra parte faceva Freud), assimilava Pulcinella sul piano fisiognomico, per via dei suoi tratti fisici (“naso lungo e adunco, mento sporgente, schiena gobbuta, ventre prominente, berretto a punta”)  alle figure falliche, caricature dell’ uomo deformate e imbruttite, ma dotate di poteri magici, e l’ analisi veniva confermata quando si trasferiva sul piano del  significante linguistico (Pulcinella <pollicenus=pulcino), che aggregava la maschera al mondo dei pennuti, riconosciuti come simboli fallici per eccellenza.     

Questo simbolismo – aggiungeva Jones – è il simbolismo fallico matriarcale, rappresentato non solo dai pennuti, ma anche dal diavolo, il serpente, la scimmia e l’ asino, doppi emblematici del figlio ribelle, che in tutte le società ha il privilegio del libero uso di potere, in veste di comico, violare la norma linguistica per svolgere l’ esercizio della critica sociale. L’impulso a trasgredire dei Pulcinelli è il “ritorno del rimosso”, e il simbolismo fallico è  un mezzo per esprimere idee e sentimenti interdetti, consapevolmente nascosti o inconsciamente sprofondati nell’ inconscio.

Era una bomba etnopsicoanalitica, che poneva in termini nuovi e stranianti questioni  ritenute essenziali, non risolte del tutto dalla storia culturale e dalla filologia: se gli impulsi che hanno generato Pulcinella sono una costante dell’ uomo, essi a) sono comuni a tutte le figure similari, che possono perciò essere considerate doppi di Pulcinella ed a lui per molti  versi assimilabili;  b) sono tuttora più attivi che mai, e dimostrano che le differenze tra quello che hanno generato ieri e quello che generano ancora oggi sono più superficiali che essenziali: credenze e rappresentazioni permangono come sintomi  nevrotici, che producono forme ed esistenze nuove, perfino, a volte, più rigogliose delle precedenti: se Pulcinella morisse, resusciterebbe sotto altre forme. Sono i termini nuovi, in cui è ribadita l’ universalità della maschera e la sua persistenza nel tempo, la sua eternità.

Il Pulcinella di Jones serve a Lacan come punto di riferimento importante per  la sua riflessione  sulla  teoria del simbolismo dello stesso Jones (Scritti, 1974/1966). Lacan parte dal fonema e conferma la “dominanza del significante”, che si manifesta, più che nella voce in falsetto e nelle anomalie morfologiche del personaggio, nelle omofonie (polecenella, pulcinella, pullus, punchinello, punch), che “condensandosi in sovrimpressioni, al modo del tratto di spirito e del lapsus, denunciano nel modo più sicuro che ciò che simbolizza è il fallo”. Il fallo è “il significato di quella perdita che il soggetto subisce per la frammentazione del significante” e “la funzione di contropartita a cui un oggetto è portato dalla subordinazione del desiderio alla dialettica simbolica”.

La cultura italiana del tempo non registrò subito con la dovuta attenzione queste importanti acquisizioni. Il saggio di Jones  passò quasi inosservato nella versione originaria inglese del 1916, e solo molto più tardi, dopo la traduzione italiana del 1970, i significati dell’ interpretazione fallica si popolarizzarono, almeno tra i dotti,  spesso banalizzandosi, grazie all’ uso che ne fece, senza ricordarlo,  Roberto De Simone e ai saggi di  Lacan e di Fontana. La percezione della maschera si rinnovava facendosi più complessa, e per oltre un ventennio i napoletani fecero tesoro del serbatoio di simboli di grande suggestione che psicoanalisi e antropologia rivelavano ai cultori della maschera, per costruire una nuova poetica pulcinellesca, appetibile anche da un pubblico – nativo o turistico – ansioso di novità e sedotto da profondità che sembravano esotiche. 

L’ Ombra e il Salvatore

Per la prima volta, intorno alla metà del secolo XX, la cultura europea, dopo alcuni studi antropologici settoriali, aveva cominciato a discutere a raggio multidisciplinare e con pretese teoriche sul trickster, grazie a un libro, pubblicato a Baltimore dall’ etnologo Paul Radin, contenente una serie di racconti sulle prodezze di Wakdjunkaga, un demiurgo winnebago dai tratti pulcinelleschi. Tradotto in tedesco e poi in italiano col titolo Il Briccone divino nel 1954, il libro era arricchito di studi di Kerényi e Jung, che istituivano una connessione analogica forte  di questo trickster, ritenuto una forma culturale primitiva ed elementare, espressione di esigenze di ordine inferiore, riassunte nella figura dell’ “Ombra”, con Pulcinella e – riprendendo alcuni riferimenti di Jones – con le figure a lui affini  delle grandi culture non etnologiche, antiche e moderne. Si rafforzava così il riconoscimento del “tipo Pulcinella” come la “radice atemporale, presente in tutti i paesi, di tutte le creazioni picaresche della letteratura mondiale”, permanentemente strutturata nell’ inconscio collettivo e individuale (1979/1954).

Il mitologo si pone anche il problema di sciogliere il mistero della fascinazione esercitata dalle forme di vita “basse”, che si ritrova nei vari generi di ispirazione popolare e semipopolare unificati nella categoria del “picaresco”, e lo spiega come il momento in cui la cultura ufficiale  si annette sfere che le sfuggivano, come quella del comico, e assorbe l’esperienza delle classi ”inferiori”: allargamento della coscienza, che si fa coincidere con la nozione egeliana di totalità: la funzione di queste figure del disordine si comprenderebbe solo all’ interno di strutture sociali arcaiche, in cui tutte le attività sono plasmate dal senso dell’ ordine e dominate dalla tendenza ad assorbire il disordine e l’ illecito nel segno del sacro. Si tratta comunque di arcaismi in via di sparizione davanti all’ avanzare del progresso e dell’incivilimento.

Jung è invece più attento di Kerényi nel porre il problema della sopravvivenza del trickster nel mondo civilizzato: il Briccone è come una seconda personalità dal carattere infantile e inferiore, è incorporato nell’ uomo di ogni tempo,   fa parte della struttura del suo carattere, e “continua a far sentire la sua presenza e la sua influenza fin  nelle fasi di più alta civiltà”, perché anche quando la sua immagine sembra dissolversi per l’ influenza della civiltà stessa, il suo “nucleo principale” permane nell’inconscio individuale e collettivo. E’ uno sviluppo della nozione del “sintomo nevrotico” elaborata da Jones. Secondo Jung è la coscienza a tenere viva questa “ombra”, per esporla alla critica e “non dimenticare com’ era il passato” ed evitare il pericolo che il nemico si trovi alle proprie spalle. Ma, al di là di questa pedagogica deterrenza, non trova ancora una spiegazione convincente in Jung la fascinazione esercitata dallo spirito del Burlone. Il fatto è che, se si dipinge, come fa Jung,  l’ anima del trickster con i colori più scuri dell’ “ombra”, che, secondo Jung ci appartiene, non si può pretendere che si possa rimanere affascinati dalla parte peggiore di sé. Come scrisse Eliade, l’ inconscio è popolato da dei, oltre che da demoni.

La risposta dell’ enigma è infatti nelle ambivalenze del personaggio, nel suo essere un perverso benefattore, nell’ incarnare la parte maledetta e insieme il suo riscatto. La contraddizione non era sfuggita soprattutto a Jung, che aveva cercato di dimostrare la metamorfosi, nel tempo,  del trickster perverso nella figura benefica del  Salvatore e la aveva spiegata come l’ evoluzione nel tempo dello stadio originario ancora primitivo, attraverso cui l’ “Ombra” viene progressivamente riconosciuta e integrata, provocando una “modificazione della personalità”. La contraddizione viene in questo modo   superata attraverso lo slittamento dal piano sincronico a quello diacronico, e nel caso nostro sembra confermata dalle trasformazioni sette-ottocentesche di Pulcinella, sempre più esposto a una riforma che ridimensiona i suoi tratti amorali a vantaggio delle sue connotazioni salvifiche e sacrificali. 

Non sappiamo quanto queste trasformazioni della Maschera influenzassero l’ immaginario di un predicatore del secolo XVIII, che  gridava alla folla, mostrando il crocifisso, che “Cristo è il vero Pulcinella”. Questa audace identificazione doveva appartenere in qualche modo anche all’ immaginario della plebe cittadina, indotta dai  predicatori religiosi o autonomamente germogliata nell’ inconscio religioso dei ceti popolari, che avevano un rapporto d’ intimità con Pulcinella e con le cose sacre. Nella sfera intellettuale  il motivo del buffone come metafora del Cristo oltraggiato si trovava già, come abbiamo visto,  nella pittura di Rouault. Esso entra nella cultura letteraria e filosofica negli anni Settanta, nella temperie culturale in cui un rappresentante della teologia radicale come Xarvey Cox identificava Cristo con Arlecchino (La fête des fous,1971).

“Nelle  mani d’ un prete eloquente – Ha lasciato scritto Samuel Sharp passando per Napoli – il Crocifisso è un’ arma spaventosa. (…) A Napoli è una piazza chiamata Largo di Castello. Somiglia al  nostro Fower-Hill, ed è il ritrovo del popolo ozioso. Qui. In ogni pomeriggio, i frati e i pagliacci, i borsaiuoli e i ciarlatani compiono la lor bisogna. Un frate (del genere dei nostri predicatori ambulanti) predica a un uditorio di popolani che riesce a mano a mano ad attirare; un pagliaccio tenta di stornar dal frate quella gente, mettendo in mostra Pulcinella; e gli altri parecchi commedianti s’ ingegnano a fare altrettanto. Or accadde un giorno che Pulcinella ottenne molto successo. Il povero fratre predicava addirittura alle panche: nessuno se gli accostava. Seccato, mortificato, imbestialito all’ idea che un teatrino di marionette, a venti metri di distanza da lui, potesse in quel modo sviare l’ attenzione del pubblico dall’ Evangelio e fargli preferire un sì triviale divertimento, egli levò ad un tratto il Crocifisso, e con voce ispirata e rabbiosa, si mise a urlare:  – Ecco il vero Pulcinella! Venite, signori, venite da me!  Ed è così noto  in Napoli questo fatto, ch’ io non mi sarei permesso di narrarvelo, se non lo narrassero, a tutti, anche le persone più pie”.  

Al punto in  cui “tutto finisce in commedia”, e quest’ jultima “si volge alla farsa”, si chiede Lacan, citando questo racconto, “quale dei giocolieri ha in mano il vero Pulcinella?” La fortuna recente dell’ apologo è legata a questo interrogativo, che trasforma lo scandalo religioso in un importante  problema conoscitivo.

Peccatore collettivo  e capro espiatorio

La tematica di Pulcinella as trickster subisce un avvaloramento inatteso negli anni Settanta, forse perché su questo irrispettoso violatore delle regole che fondano l’ ordine sociale e cosmico si proiettò il bisogno collettivo di liberazione, che animava le utopie di quegli anni. Il punto di partenza è forse ora l’ analisi dell’ etnologa Laura Makarius, che nel 1974 pubblica le sue indagini principali sulla  presenza in numerose culture primitive, del trickster come un eroe culturale, un “peccatore collettivo”, che ha avuto dalla comunità la delega a trasgredire per il bene di tutti, perché la violazione degli interdetti gli conferisce il potere straordinario, con caratteristiche sacre, che egli può utilizzare  a vantaggio della comunità. Ma in quanto peccatore collettivo, l’eroe finisce con l’ essere un capro espiatorio, perché prende su di sé la colpa delle trasgressioni che rispondono ai desideri di tutti, ed è punito con la deformità corporea, il ridicolo, le persecuzioni e le botte. Sia pure in  forme superficiali, l’idea di Pulcinella come caprio espiatorio comincia a ritrovarsi nelle visioni della maschera a partire dagli anni Settanta, per l’ influenza esercitata non solo dagli studi scientifici e dalla loro divulgazione, ma anche dalla letteratura, dal teatro e dalla pittura. 

 Pulcinella e Cristo

Dalle acquisizioni della letteratura psicoanalitica, ma soprattutto da Lacan, parte Alessandro Fontana, spiegando (1972): “l’ alternativa posta dalla maschera nell’ambito del desiderio è: o essere un fallo, cioè il pene simbolico, cioè il desiderio dell’ altro, o avere un pene reale, cioè assumere il desiderio proprio: l’ ambiguità profonda di Pulcinella risiede in questa alternativa, di cui è manifestazione: alternativa attraverso la quale il popolo italiano ha vissuto, nelle forme della privazione angosciante o della castrazione fondatrice – tipiche di culture maternalistico-autoritarie – il suo rapporto col desiderio”. Pulcinella è dunque legato alla privazione del sesso e al timore della castrazione, e la sua vita sulla scena è figura del rimosso che ritorna, già intravista da Jones. Alla luce della teoria del discorso di Foucault, Fontana spiega che la cultura italiana per secoli ha occultato dentro ideologie religiose e politiche, che costituiscono il linguaggio dell’ ordine, la verità della morte, del desiderio e della violenza: “il sacrificio liturgico del Cristo ha sublimato l’ angoscia della morte”, ma “la scena ha consentito che potesse emergere” tutto quello che è stato escluso, occultato, taciuto; e la maschera di Pulcinella, “prendendo a carico ciò che il discorso dell’ ordine nega ed esclude, funge in ultima istanza da suo positivo fondamento”: in questo modo “Cristo e Pulcinella appaiono come le figure costitutive della scena simbolica italiana, allo stesso modo in cui Dioniso e Apollo, secondo Nietzsche, lo erano per la scena greca”.

Il rapporto Pulcinella /Cristo si riverbera in una identificazione parallela, quella di San Gennaro martire e Pulcinella. Dalla tradizione viene il rapporto di Pulcinella col sacro (con la sua presenza nel presepe e perfino nell’ arredo delle chiese), ma non un legame particolare con San Gennaro. L’ identificazione è dunque recente, ed è opera dei maestri presepianti napoletani di via San Gregorio Armeno, oggi non estranei a suggestioni intellettuali.

Il Pulcinella di Roberto De Simone

La ricerca sul terreno e la poetica desimoniana

E’ anche con la ricerca sul terreno, che si rinfresca  l’ immagine di Pulcinella. Iniziata nel 1974 nell’ avellinese da Roberto De Simone in collaborazione con  una èquipe dell’ Università di Salerno, come indagine sul Carnevale e sulla  più diffusa azione cantata carnevalesca, La canzone di Zeza,  cominciò a fornire al noto musicista e uomo di teatro napoletano gli strumenti per una riscrittura della musica tradizionale popolare e semipopolare campana. I risultati di questo lavoro comune venivano pubblicati nel volume del 1977 a cura sua e di Annabella Rossi (Carnevale si chiamava Vincenzo), in cui figurano diversi suoi contributi, dedicati alla Zeza e a Pulcinella. Dopo la fase di rilevazione scientifica, De Simone elaborava i testi in vista dell’esecuzione insieme alla Nuova Compagnia di Canto Popolare, di cui è stato di fatto il direttore, sulla base delle conclusioni cui era pervenuto: la Zeza sarebbe nata da un 

probabile testo originario contadino, che avrebbe assunto durante il vicereame la forma musicale che appartiene alla musica popolareggiante della città di Napoli e la forma della metrica che afferisce alla cultura urbana. La Zeza, associabile per molti aspetti alle  villanelle cinquecentesche,  si sarebbe diffusa e tramandata nelle province meridionali in questa forma. L’ elaborazione della cantata effettuata in seno alla  NCCP (Nuova Compagnia di Canto Popolare),  ripropone questa contaminazione di colto e popolare, in sintonia con la tradizione ora restaurata. L’ intenzione di De Simone  non era la riproduzione passiva del patrimonio orale popolare, residualmente appartenente a un numero sempre più ristretto di anziani (i soli abilitati ad eseguirlo), ma semmai la riattivazione di “un materiale che si riferisce alla dimensione del popolare, restituendo vita a una scrittura musicale ad essa appartenuta, con una complessa operazione, che riproponeva “semmai le strutture linguistiche (le scale musicali, i giri armonici, le interpolazioni legate alle improvvisazioni ecc.), piuttosto che ipotetiche e psudo-autentiche esecuzioni”(A. Sapienza).

Sin da questa prima esperienza emerge come la produzione di De Simone si alimenti non solo della ricerca sul campo dei testi orali, ma anche dell’ utilizzazione di un materiale scritto originariamente afferente non alla tradizione orale-popolare, ma a una produzione semicolta, artigianale,  che ha contaminato e plasmato la cultura popolare diventando da essa indissolubile. Nelle elaborazioni di De Simone-NCCP si opera dunque una mimesi del popolare e dell’ oralità, trattati tuttavia con una “stilizzazione strumentale“ che li rende diversi dalle forme originarie, di cui tuttavia si lasciano percepire  lo spirito e i significati.

Il desimonismo e la vulgata psicoanalitica e antropologica

Queste idee e pratiche di ricerca e di composizione sono diventate in breve tempo dominanti nella cultura musicale napoletana specie dopo la presentazione del lavoro  di De Simone-NCCP, voluta da Eduardo de Filippo, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, nel 1972. Inauguravano un approccio diverso alla una cultura tradizionale,  mettendo in crisi la stessa categoria del “popolare” propria della demologia di ispirazione gramsciana, sollecitando l’ individuazione  di forme autonome e interattive  di tradizioni culturali all’ interno di un mai ben definito confine del popolare, e di fenomeni di contaminazione storica tra colto e popolare, che a loro volta legittimavano nuove forme di contaminazione. Ha inizio il desimonismo,  un nuovo e diverso folk-revival in area campana, alleggerito delle tensioni politiche e delle implicazioni sociali.

Pulcinella ha guadagnato molto dal nuovo corso: dalle elaborazioni teoriche  si è passati alla concretezza realistica della ricerca sul campo, si è superata la dicotomia tra il Pulcinella del teatro e quello del folklore, tra testo tramandato scritto e testo ricostruito nel lavoro sul terreno.

Non si trattava solo di musica e di canto. De Simone ha praticato una nuova ermeneutica, sia pure con semplicistici  e limitati agganci teorici, interessata non solo ai linguaggi musicali, ma anche a quelli verbali e gestuali. La critica letteraria e filologica rivelava ormai la sua inadeguatezza ad affrontare la complessità e i significati delle stratificazioni della cultura che emergeva dalla ricerca sul terreno,  e la lettura politico-sociologica era entrata in una fase di disincanto, proprio mentre si andava espandendo l’ uso della psicoanalisi soprattutto nella versione lacaniana, la folkloristica con molto ritardo era diventata una disciplina antropologica, e tra antropologia e psicoanalisi guadagnava terreno il filone etnopsichiatrico. De Simone si è avvalso ampiamente soprattutto  di quello che della psicologia del profondo (di Jung più che di Freud) e dei nuovi saperi si era già diffuso nella forma di una vulgata e di luoghi comuni, per conferire interesse e novità alle trame più suggestive della cultura tradizionale e alla vecchia folkloristica: Pulcinella, il Carnevale, le Maschere,  la Commedia dell’ Arte, il lutto e la morte, la ritualità popolare, l’ eros, i miti e le narrazioni, i linguaggi verbali e del corpo. In forme estremamente semplificate, cercò di far emergere i significati latenti (solitamente arcaici), le invarianti di un inconscio etnico, partenopeo prima che universale: una rete pulsionale, debolmente sintattica e poco categoriale

(non lévi-straussiana), che si poneva come la spiegazione ultima, il fondamento assoluto di ogni trama e narrazione, assorbendo o ignorando gli altri elementi del quadro sincronico e del palinsesto diacronico.

Ecco una sintesi dei significati di Pulcinella: una convergenza dei saperi, operata dallo stesso De Simone al termine di un minuzioso lavoro di analisi demologico e archeologico: “Pulcinella, come  morto, è vestito di bianco – ha la maschera nera; come equivalente del morto, è gallina, gallo, pulcino, oca; come dio dei morti, ha la scopa in mano, è trasportatore o veicolo di morte, è guida nell’ al di là (conduce il ballo a Montgemarano); come ermafrodito, ha le gobbe, partorisce, ha il corno in mano; come rappresentazione fallica, ha il “coppolone”,  (cappello a punta), è “cetrulo” (cetriolo, deriva da “pollice” come “Pollicinella”; come veicolo del male, ha tutte le colpe e la paura della comunità, è gallina o gallinaceo; come esorcismo alla morte, è fallo, ha la scopa in mano, bastona la stessa Morte, ha il corno”.

Mettendo da parte da parte ogni considerazione sulla scientificità delle procedure,  occorre prendere atto del fatto che De Simone ha riscritto l’ immaginario tradizionale campano nei termini che sono sopravvissuti fino ai nostri giorni, influenzando il pubblico di ogni categoria sociale (ma specialmente quello colto o semi-colto) e l’ attività creativa di generi diversi (teatro, musica, saggistica, arte), sollecitando la costruzione di una nuova immagine di Pulcinella, non più identificabile con l’ emblema plebeo né col balletto aristocratico e borghese.

La rivincita della scrittura

In questo quadro, in cui la ricerca sul terreno e l’ oralità vanno a bracceto con la scrittura, De Simone tira fuori dagli archivi della Commedia dell’ Arte La Lucilla costante, il testo teatrale di Silvio Fiorillo, creatore, nel 1609, della maschera di Pulcinella. Era un classico, forse la prima pulcinellata teatrale, con un Pulcinella antieroe, antagonista di Matamoros, in un duello nel quale la boria dei grandi è umiliata dall’ astuzia dei deboli e quest’ ultima a sua volta si rivela l’estrema risorsa della legittima paura. De Simone lo ripropone nel 1982, affascinato dalla compresenza di elementi colti e popolari, e dalla perfezione del linguaggio teatrale,  curando le musiche e la regia, con una brillante  “messa a fuoco del ritmo di recitazione”, avvalendosi della scenografia e dei costumi di Nicola Rubertelli. Questo recupero creativo, se per un verso conferisce a Pulcinella i tratti del desimonismo, per un altro verso gli restituisce alcuni dei suoi caratteri secenteschi, liberandolo della sua codificazione  patetica  tardottocentesca, ancora dominante nell’ immaginario collettivo. De Simone si propone anche “una attenta lettura del sottotesto”, per cogliere i sentimenti e le tensioni che circolavano all’ epoca,  che è assente in questa commedia,  ma è rinviata a un’ altra occasione, che sarà l’ analisi del Don Giovanni.

Intanto, con La Lucilla costante De Simone opera uno spostamento più deciso non solo dalla ricerca sul campo al documento bibliografico e archivistico, ma anche dalla cultura folklorica alla Commedia dell’ Arte, dal Carnevale al teatro,  addentrandosi  per altre vie nel mondo complesso della Maschera napoletana.

In Le 99 disgrazie di Pulcinella nel 1988 (poi 1994) Roberto De Simone recupera  un altro testo scritto delle pulcinellate dei primi secoli, che rielabora con molta libertà, inserendovi antiche canzoni  rifatte con finezza, che tornano a rendere appetibili trame troppo usurate. Si tratta di   una commedia di Gregorio Mancinelli del 1769, con elementi di altri canovacci anonimi, che notoriamente cumula una serie innumerevole delle disavventure canoniche cui è esposto Pulcinella nelle vesti di vittima e capro espiatorio, che è ora un ricco mercante di Acerra, ma, come avviene in quei pochi casi  in cui si verifica questo mutamento di status, conferma le sue connotazioni di fondo, a cominciare dalla sua parodia del provinciale e della sua estrazione rustica e paesana, con tutte le caratteristiche  che ad essa l’ immaginario cittadino attribuiva: la goffaggine del paesano disorientato  e smarrito nei meandri della grande città, la rozzezza del villico balordo e scurrile, accanto a una certa capacità di discernimento critico e di commento ironico, a volte involontario, sulla vita cittadina.

Nello stesso 1988 De Simone insieme a Giovanni Mauriello e agli altri suoi collaboratori si confronta col balletto, rappresentando con molta libertà al Teatro Mercadante il  Pulcinella  composto da Stravinsky nel 1919 partendo dalle musiche di Pergolesi. Pulcinella nella versione desimoniana che riscrive quella di Stravinsky ripropone nello spirito, nelle situazioni e nelle trovate il Pulcinella del teatro comico napoletano dei primi secoli, con ibridazioni di popolare e colto,  suscitando stupore e divertiti consensi (“Che grande Pulcinella questo di De Simone! Chi è Pulcinella, e chi è il v ero Pulcinella? – scrive un critico attento – . Sulla falsa riga del falso Pergolesi del balletto di Stravinsky, De Simone ha costruito uno dei suoi falsi più belli”, inserendovi “una imitazione di Pergolesi che sembra una perfetta imitazione di Stravinsky che imita l’ imitatore di Pergolesi”).

La sacralizzazione. Mostre e convegni

Il Pulcinella di Santanelli e Scaparro

La versione teatrale e cinematografica dell’ opera del drammaturgo Manlio Santanelli e del regista Maurizio Scaparro ha contribuito per vie diverse da quelle di De Simone alla rivitalizzazione e riplasmazione dell’ immagine di Pulcinella. Santanelli è autore napoletano di  commedie diventate celebri, in cui si avvertono influenze del teatro dell’ assurdo,  per lo stato di apparente immobilità e apatia che caratterizza i suoi personaggi, unito alla follia delle situazioni narrate, che vengono in ogni situazione superate da un’ironia tutta napoletana, con incessanti slittamenti dal comico al tragico. Nella commedia Pulcinella del 1987, ricavata da un testo  inedito di Roberto Rossellini a sua volta suggerito da un canovaccio di Bragaglia, si avvale della collaborazione di Maurizio Scaparro. L’ opera debuttò per la prima volta al Teatro Argentino di Roma e venne rappresentata in giro per l’Italia e negli Stati Uniti, in Canada in Francia, in Spagna, in Germania, dando agli autori una rinomanza internazionale e allargando al pubblico dei teatri stranieri la conoscenza di Pulcinella, fino allora espressione di un cosmopolitismo minore, garantito quasi unicamente dal teatro di figura. Questa la trama dell’ opera: 

Partendo dal testo di Rossellini, Santanelli è approdato a situazioni nuove, Il suo Pulcinella, ossia Fracanzani, è personaggio meno fragile, più vicino al Pulcinella della Commedia dell’ Arte, effetto ottenuto anche attraverso il ridimensionamento di Caterina, suo alter ego e coscienza critica. E’  inoltre semplificato lo sfondo storico ed etnografico degli eventi e degli spazi attraversati nel viaggio a Parigi, soverchiamente ingombranti nel testo di Rossellini, ed è esaltata la comicità delle situazioni attraverso il linguaggio più vivo e la battuta incalzante, che fa percepire l’ eredità e il modello dei linguaggi del teatro in maschera napoletano, mondato degli eccessi verbali e concettuali. 

Sia Santanelli che Scaparro non hanno nascosto la loro intenzione di conferire alla narrazione del viaggio il senso di una modernità non invasiva e di un autobiografismo discreto: “Mi sono con piacere avvalso del tema dell’emigrante” ha sostenuto Santanelli “optando cioè per un viaggio che fosse un po’ forzato, pensando comunque ad un attore che “fa Pulcinella”, un uomo del suo e magari del nostro tempo”. In sintonia, Scaparro ha confessato che “il tracciato di questo Pulcinella può essere letto come metafora del vivere dell’ attore che si scuote dai malesseri meridionali, mette in piedi un’ armata Brancaleone e, rifiutato in patria, sceglie come  meta una capitale europea dove la prosa è tradizionalmente un’ istituzione”: dichiarazioni che sono un preludio dell’ Ultimo Pulcinella, il film autobiografico del 2008, emotivamente radicato in questa esperienza del 1987.

Convegni e mostre per Pulcinella

Il Pulcinella da più parti riscritto comincia a guadagnare lo spazio delle mostre  e dei convegni. Dopo molte resistenze era stato già fatto oggetto di studio, a partire dal secolo XIX, da parte dell’ alta cultura europea, ma solo per merito di intellettuali e ricercatori capaci di violare i tabù dominanti. Le mostre e i convegni, che accompagneranno ininterrottamente nella nuova fase il ritorno della maschera, rappresentano la socializzazione di riconoscimenti che possiamo dire scientifici, comunque autorevoli. In più, se la gente aveva una sua visione autonoma di Pulcinella, come di tutte le cose di casa propria, le mostre e i convegni, non solo tra i ceti meglio acculturati, accreditavano l’ immagine del Cetrulo che riguadagnava i suoi spazi compromessi e facevano progredire la sua conoscenza: la mostra di Cerino (1981) costruisce un ponte tra Il pulcinellismo tradizionale e le innovazioni prodotte dalle novità musicali e teatrali, soprattutto quelle introdotte da De Simone; gli scrittori della mostra-convegno di Bologna (1983) ribadiscono in tono minore le istanze sociologiche precedenti, ma, in gara cogli artisti, spostano l’ interesse sugli aspetti formali, e la mostra di Caserta (1987) introduce la considerazione della cultura materiale, gli oggetti teatrali  e l’ artigianato legato alla produzione teatrale. L’ incontro degli operatori del teatro di figura a Palermo (1988) infine allargava in altre direzioni gli orizzonti, mettendo insieme innovazioni stilistiche e tematiche, esperienze internazionali e artigianato teatrale. 

La Mostra di Cerino

Nel maggio del 1981 il pittore Vincenzo Cerino propone una mostra di pittura su Pulcinella e i suoi “commedianti” con il patrocinio del  Comune di Napoli, della Regione e del Centro Studi Etnologici, in contemporanea con l’ uscita del volume dello stesso Cerino, Cinque anni con Pulcinella e c., pubblicato da Marotta. E’ stato, nell’ intenzione del pittore, “un tentativo di fare la cinghia di trasmissione con una fetta di passato alla deriva”. Mostra e libro volevano essere un segno forte del “ritorno” del Cetrulo, “un atto di omaggio a Pulcinella e ai suoi soci di palcoscenico, messi in disparte agli inizi degli anni Cinquanta”, non senza l’assenso di Eduardo de Fillippo, cui si rimprovera di “aver fatto scivolare sulle tavole del palcoscenico” la Maschera  lasciatagli in eredità da Salvatore De Muto. Al tempo stesso si guarda con speranza a Peppe Barra e Roberto De Simone: il che mostra come il Pulcinella riscritto e riproposto da De Simone e Barra nel contesto di un folk-revival radicalmente rinnovato poteva potesse trovare consensi all’ interno delle diverse tendenze del pubblico napoletano.

Vincenzo Cerino, nato a Napoli il 1931, ha dedicato a Pulcinella pitture e studi. Si è formato alla scuola dei Macchiaioli in Toscana, ma, ritornato a Napoli, ha studiato  a lungo il teatro dialettale napoletano, nell’ambito del Centro Studi Etnologici, dedicando a Pulcinella saggi e opere pittoriche, in cui si ritrovano influenze del classicismo ermetico, del surrealismo e dell’arte metafisica.

Il Convegno di Bologna: Pulcinella tra mito e storia

Nell’ aprile 1983 a Bologna si tiene la mostra personale di Vittorio Piscopo. I comuni di Bologna e di Napoli vogliono che l’ esposizione si associ a un convegno di più ampio respiro, dedicato alla maschera e a Napoli. Vi aderiscono alcuni dei maggiori scrittori napoletani, come Pomilio e Prisco,  insieme ad alcuni filosofi. Si parte dai dipinti di Piscopo, e si ridisegnano profili di Pulcinella, sulla base della saggistica tradizionale, con alcune note originali dovute soprattutto ai narratori. In contrasto con le lucide distinzioni di Benedetto Croce, prevale la tendenza a vedere in Pulcinella “lo spirito della plebe di Napoli”, sottratto ad ogni forma di condanna. Il senso dell’ iniziativa – come si legge negli Atti, era quello di “fare i conti con la propria città”, ritrovandola nel suo personaggio più popolare,  collocando le riflessioni nello spazio che rimane tra l’ apologia e il rifiuto e contrastando la tendenza ancora non  superata ad abdicare al mito di Pulcinella.

Omaggio a Pulcinella:  una mostra a Caserta

Nel gennaio 1987 si inaugura a Caserta la mostra Omaggio a Pulcinella, ideata e organizzata da Beatrice Premoli, funzionaria del Museo delle Arti e tradizioni Popolari di Roma, con l’adesione di varie istituzioni. L’ elemento unificante doveva essere la presenza di Pulcinella nel Carnevale napoletano storico e in quello romano, documentata soltanto per exempla e senza pretesa di esaustività. L’ originalità della proposta era nell’ uso di stampe, costumi, maschere, facciali, disegni, fotografie, per documentare il contributo di artisti e artigiani alla vita spettacolare delle due città e “nel continuo processo di scambio culturale in tale ambito”. Sia pure per cenni, si istituisce legittimamente l’afferenza di Pulcinella alla tradizione in seno alla quale è nato l’avanspettacolo. Tra le cose più notevoli e più nuove si colloca l’attenzione alle tipologie della maschera facciale del Cetrulo,  dalle più antiche alle contemporanee, distinte secondo gli autori, per la prima volta fatti oggetto della giusta attenzione. Si va dunque dal simbolo alla cultura materiale, agli strumenti e oggetti teatrali, ai materiali visivi, per ritornare al simbolo con accresciuta consapevolezza.

La Macchina dei sogni  a Palermo

L’ idea che per uscire dall’ angolo occorre innanzitutto creare solidarietà di mestiere e potere di contrattazione, rompendo un isolamento che genera solo individualismo e marginalizzazione, inaugura negli anni Ottanta la tendenza alle associazioni di categoria, alle forme organizzative e alle politiche di richiamo e attrazione del pubblico, che storicamente erano i burattinai ad andare a cercare nelle piazze, nelle strade e nei giardini pubblici. Nel 1988 gli operatori del teatro di figura organizzano autonomamente a Palermo un incontro dal titolo La Macchina dei Sogni, con l’ aiuto del Ministero del Turismo e Spettacolo della Regione Sicilia. Compagnie teatrali provenienti dalle maggiori città italiane e – memo numerose, ma molto qualificate – straniere  si sono esibite per tre giorni all’ interno della Villa Città dei Ragazzi sotto la direzione artistica di Mimmo Cuticchio e Guido Di Palma. Nello stesso luogo è stato creato uno spazio dedicato all’ artigianato legato al mondo dello spettacolo in varie installazioni costruite durante le manifestazioni, in modo da determinare il coinvolgimento della gente.

L’ esperienza palermitana ha dato un’ idea delle capacità innovative del teatro di figura: Fabio Altieri, attore e burattinaio operante ad Asmara, contamina la tradizione delle guarattelle napoletane con l’ immaginario della cultura giovanile contemporanea, mettendo a confronto l’ estetica Punk con il lato nero della comicità pulcinellesca; nello spettacolo Punch ou l’ autre Don Juan di Alain Le Bon, francese, ideatore della “Maison de Polichinelle” a Saintes, l’ eroe maschile si confronta con la donna, apparentemente riproponendo la misoginia tipica del teatro comico popolare, ma di fatto instaurando un confronto con la vita, con la sua realtà e la sua violenza. Le Bon innesta Punch,  il burattino inglese dal piglio crudele, nel Polichinelle francese, mostrando le possibilità aperte dalla pratica della contaminazione in questo teatro, che mostra di poter raggiungere livelli elevati di significato e di forma. Una bella esperienza per i guarattellari napoletani, rappresentati da Bruno Leone, Salvatore Gatto e Maria Imperatrice, da tempo noti al pubblico, e per il Centro Culturale teatro Sipario, pure napoletano, che ha presentato Pulcinella tra i visitatori.