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C’è vita nei Carnevali campani

Comitato Pro Pulcinella

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Signore del Carnevale

Nei primi anni del Seicento, la maschera di Pulcinella, nata sulle scene dei teatri napoletani,  si ritrova per un fenomeno di discesa nelle rappresentazioni carnevalesche, dove si riplasma assorbendo dalle maschere affini i tratti che la fanno apparire più arcaica delle maschere del teatro. Nel Carnevale, in cui le maschere comunicano soprattutto attraverso il simbolismo legato al vestiario e alla gestualità, l’abbigliamento del Cetrulo conserva importanti elementi codificati nei loro significati: la spada, il corno, il bastone, la vescica gonfia, la campanella, ecc, tutti rimandanti ai temi fondamentali dell’universo pulcinellesco dominato dal sesso, la violenza, la paura, la stolidezza. Pulcinella appartiene alla categoria di maschere delegate a produrre rumore, indispensabile alla festa, perciò fa schiamazzi, batte col bastone, agita i campanacci, suona strumenti popolari come le nacchere, il triccaballacco, lo scetavaiasse, il tamburello, il mandolino e balla la tarantella e la quadriglia.

Pulcinella ha quindi nel Carnevale la funzione di fare da battistrada ai cortei, presenziare a numerose scene, aprire e chiudere le rappresentazioni, delimitare gli spazi delle azioni, ora interferendo dall’esterno nelle scene ora controllando e coinvolgendo il pubblico. E assolve queste  funzioni in modo del tutto compatibile con i suoi comportamenti sregolati e spropositati: è una maschera “irrequieta” nel  dinamismo dei suoi movimenti e nella vivacità della sua gestualità: molte scene si reggono sulla sua capacità mimica, gestuale e soprattutto verbale, e divertono  ed eccitano con l’allusione oscena e la battuta con doppio senso.

La Zeza

La Zeza (Canzone di Zeza), scenetta carnevalesca cantata al suono di strumenti musicali che variano da luogo a luogo, vide probabilmente la luce nel Seicento e da Napoli si diffuse nel resto della Campania e nelle altre regioni del Reame, integrandosi nelle culture locali e assumendo caratteristiche diversificate.  Scomparsa a Napoli intorno agli anni ’75 del secolo passato, ancora oggi è riproposta, tra le scene più gradite del periodo carnevalesco, nelle domeniche precedenti il martedì grasso, quando la compagnia di popolani sfila per le vie principali, accompagnata dalla musica di tromboni, clarini, chitarre, tamburi, grancassa, piattini, corni, “scetavaiasse”, “triccheballacche”, tamburelli, ciaramelle, in varie combinazioni.

La Zeza rappresenta gli amori del giovane Don Nicola, originariamente studente calabrese, e di Tolla (o Vincenzella, a seconda del luogo), contrastati dal padre della ragazza, Pulcinella, che teme di essere disonorato ed è inconsapevolmente geloso, in contrasto con sua moglie Zeza, che vuole 

che la figlia si diverta e trovi marito; Pulcinella sorprende gli innamorati e reagisce violentemente, ma, piegato e punito da Don Nicola, alla fine si rassegna. Tutta la rappresentazione era ed è recitata da soli uomini che indossano, generalmente, abiti caratteristici e molto colorati con ornamenti di fiori e nastri.

La Zeza ripropone a livello popolare il conflitto vecchi/giovani con l’esplicita ribellione all’autorità paterna nei suoi aspetti oppressivi, la vittoria finale dei giovani e la risoluzione del conflitto col matrimonio, che segna la ricomposizione dell’equilibrio familiare. Il linguaggio è per lo più il dialetto del luogo, con tracce di italiano aulico; solo in pochi paesi l’ innamorato conserva la sua identità originaria e parla un dialetto calabrese teatralmente approssimativo. Forte la tendenza alla libertà linguistica, che non lesina allusioni sessuali con la tecnica del doppio senso. 

che la figlia si diverta e trovi marito; Pulcinella sorprende gli innamorati e reagisce violentemente, ma, piegato e punito da Don Nicola, alla fine si rassegna. Tutta la rappresentazione era ed è recitata da soli uomini che indossano, generalmente, abiti caratteristici e molto colorati con ornamenti di fiori e nastri.

La Zeza ripropone a livello popolare il conflitto vecchi/giovani con l’esplicita ribellione all’autorità paterna nei suoi aspetti oppressivi la vittoria finale dei giovani e la risoluzione del conflitto col matrimonio, che segna la ricomposizione dell’equilibrio familiare. Il linguaggio è per lo più il dialetto del luogo, con tracce di italiano aulico; solo in pochi paesi l’ innamorato conserva la sua identità originaria e parla un dialetto calabrese teatralmente approssimativo. Forte la tendenza alla libertà linguistica, che non lesina allusioni sessuali con la tecnica del doppio senso. 

Pulcinella e la Vecchia

Nota anche come  Pulcinella a cavallo della Vecchia, si ritrova nella maggior parte dei paesi della Campania, mentre a Napoli era viva fino agli anni Ottanta. E’ una maschera doppia, lo stesso attore interpreta Pulcinella e la Vecchia che lo porta sulle sue spalle; lo fa sovrapponendo all’abito bianco una lunga gonna e innestando la parte superiore del busto di un’anziana all’altezza dello stomaco con braccia e gambe spalancate, fatte di paglia e stoppa. Il tratto più vistoso della Vecchia era il contrasto tra il viso grinzoso e deforme e il corpo giovanile e procace. Era accompagnata da un’orchestrina, ora ridotta al minimo se non scomparsa, formata da quattro Pulcinelli che suonavano strumenti musicali popolari (putipù, triccaballacco, castagnelle), con la maschera che non copriva il viso. L’interprete deve contemporaneamente rappresentare l’anziana che si abbandona al ballo e Pulcinella che la accompagna suonando le nacchere mentre asseconda la danza muovendo braccia e corpo; alla tarantella deve conferire connotazioni erotiche: balla spingendo il bacino avanti, facendo fare alla donna mosse oscene, inoltre le dà schiaffi, recitando formule augurali e raccogliendo offerte. Questo era lo schema tradizionale, oggi molto semplificato. Dal punto di vista simbolico la maschera è formata da due personaggi uniti da un rapporto di distinzione e contrasto,  rappresentando la dicotomia Carnevale / Quaresima, vecchio /nuovo, abbondanza / digiuno, licenza / autorità.

Pulcinella nei Mesi

La rappresentazione dei Mesi è presente nei Carnevali di molti paesi della Campania e dell’Italia meridionale con caratteristiche simili. Vi prendono parte 12 giovani che raffigurano i mesi dell’anno, oltre la figura del Padre, che può essere l’Anno oppure il Capodanno, ed un uomo mascherato da Sposa, segno di propiziazione. Il corteo procede di piazza in piazza a piedi o a cavallo di asini, questuando offerte  dagli spettatori presenti. A cominciare da Gennaio tutti i Mesi, a turno, cantano una strofa  che illustra le proprie caratteristiche,  simile a una filastrocca che gioca sull’ assonanza e la rima per creare un linguaggio giocoso ricco di doppi sensi e allusioni sessuali. La mascherata ha la funzione apotropaica di allontanare temporali, siccità, venti e carestie.

Il ruolo di Pulcinella in questa rappresentazione ha chiare funzioni propiziatorie solitamente conduce, a piedi, il corteo dei mesi e disciplina l’intero rito-spettacolo ribadendo la sua complessa natura di “maestro di cerimonie” e insieme elemento di disordine. La nostra maschera conserva la sua vivacità cinetica e gestuale; linguisticamente alterna e mescola il dialetto napoletano, forme di italiano popolare e regionale a vezzi letterari di origine colta per lo più deformati.

Il Carnevale di Montemarano

Il contrasto tra suocera e nuora  

Annuccia e Tolla è un “appicceco” popolano trasferito nelle forme stilizzate del contrasto letterario, indicato in alcune trascrizioni ottocentesche come “Redicoluso contrasto”. Molto affine alla Zeza, si recitava a Napoli durante il  Carnevale fino alla fine del secolo scorso, improvvisando sulla base di un canovaccio scritto e ancora oggi si ritrova in alcuni Carnevali campani. Rappresenta una rissa tra Annuccia e Tolla, rispettivamente madre e moglie di Pulcinella, scatenata per futili motivi e articolata in un crescendo di argomentazioni ed appellativi villani e offensivi che mettono a nudo il disagio materiale del gruppo familiare, l’inosservanza dei doveri reciproci e i sospetti sulla fedeltà di entrambi i coniugi.

Pulcinella prova ad evitare i litigi tra le due donne, dando consigli di prudenza e sopportazione, tenta di ripristinare la pace tra la moglie e la suocera,  ma lo fa dando ragione ora all’ una ora all’altra, e  finisce con l’essere aggredito da entrambe, venendo  coinvolto nella rissa e abbandonandosi ad una  serie di affermazioni originate dal sospetto e dal ripicca.

La Mascherata dei Pulcinellini

La rappresentazione della nascita dei Pulcinellini è presente nel Teatro degli attori, nelle guarattelle, in alcune raffigurazioni pittoriche e nel Carnevale. Pulcinella si configura nell’immaginario comune come dotato degli  attributi della virilità e al tempo stesso con connotazioni femminili, rappresentate dal ventre e dai seni prominenti, simboli di fertilità e maternità, che evocano la gravidanza simbolica e l’allattamento,  i glutei polputi e rotondeggianti, la voce stridula e rotta di castrato, le maniche lunghe che tendono a coprire le mani. In diverse raffigurazioni egli è rappresentato come “ermafrodito autofecondante”, in atteggiamento di covare uova o addirittura di partorire dalla grande gobba o dal deretano, donde escono molti pulcinellini, subito accuditi e allattati da altri Pulcinella. L’attribuzione di caratteri femminili a Pulcinella serve a suscitare il riso secondo la logica della commedia dello sciocco effeminato, ma,  al tempo stesso, consente l’attivazione di ambigue fantasie  radicate nell’immaginario collettivo.

In area campana la mascherata sopravvive in forme diverse  nel Carnevale di piazza di Pandola. 

Le Zingaresche

La “Zingaresca” nasce nel 1500 in Italia come genere di poesia popolare costituita da  strofette in tre versi con endecasillabi e settenari. Questo genere poetico nel corso degli anni diviene una vera e propria commedia carnevalesca in cui il personaggio della Zingara, per impietosire chi l’ascolta, descrive le sue lunghe e penose peregrinazioni di terra in terra vivendo d’elemosine e dopo aver cercato di commuovere le ascoltatrici passa alle predizioni della vita futura, concludendo con la raccolta della questua.

Le zingaresche si rappresentavano nei secoli passati in molti paesi campani. Ne conosciamo pochi esempi come quelle di  Solofra, paese in provincia di Avellino, in cui compare la figura di Pulcinella, che diventa il vero protagonista della scena,  in compagnia della maschera del Dottore e di una o due Zingare con le quali condivide gli utili della questua. Il Cetrulo fa da pendant dialettale ai discorsi fatti in forma aulica dalla Zingara indovina. E’  un teatro paesano interpretato da popolani ma scritto da persone istruite, che oggi si recita in pochi paesi dell’ entroterra campano, tra i quali è Petruro.

Prodezze acerrane di Pulcinella

Le storie acerrane comprendono filastrocche che Pulcinella  racconta ancora ai nostri giorni durante il carnevale di Acerra, e si concludono con la richiesta insistente di doni, per lo più salsiccie.

Nella Storia ‘e Pulecenella primma fravecatore e po’ cafone il Cetrulo si esibisce in uno dei generi che lo hanno reso celebre, quello della spacconata verbale, in cui si presenta come muratore, pappone, sciupa femmine ed infine cafone. Racconta le sue avventure erotiche calandole in scene irreali ma nello stesso tempo dando ad esse un pesante senso di realtà: una sguaiata popolana  (vaiassa)  conduce il Cetrulo dentro un cammarone offendendolo, poi, nella sua dignità di maschio. Successivamente da muratore (fravecatore) che era il Cetrulo s’improvvisa contadino, ma finisce in prigione dopo una lite con il padrone; uscito dal carcere sposa, senza esserne convinto, una donna che dopo nove mesi partorisce “cinquantanove sausiccie e sissanta supersate”.

Un’altra storia, Pulecenella ‘o parulano, racconta le avventure del Cetrulo diventato padulano e sospettoso sulla fedeltà e sull’onestà della moglie. Il  testo è caratterizzato dalla libertà espressiva propria dei carnevali paesani, un linguaggio osceno e diretto con chiari ricorsi al doppio senso (non per occultare ma per enfatizzare la realtà del sesso), che rimanda a un’arte verbale che rappresenta il retaggio del teatro di piazza diventato patrimonio espressivo dei narratori e attori paesani.